In Italia un bimbo nasce e quasi due anziani muoiono.
Se il 2022 era stato l’anno record, in negativo, dei 393 mila neonati, e cioè la cifra più bassa dall’Unità d’Italia, secondo i dati Istat di ottobre su fecondità e natalità, la prima metà del 2023 ha visto un ulteriore decremento, di ben 3500 culle rispetto allo stesso semestre dell’anno precedente; non vanno meglio le cose dal punto di vista della fecondità, visto che dal 1977 siamo sotto alla soglia dei due bambini per donna, dal 1984 sotto quella di 1,5, e che in generale la generazione dei figli non riesce a sostituire quella dei genitori.
A differenza del Nord Europa, che ha vissuto un boom di natalità dopo il covid, in Italia non è stato così e non si registrano segnali incoraggianti per il futuro; ultima in Europa come tasso di fecondità, e col gruppo di donne in età fertile destinato a restringersi, una sovrabbondanza di figli unici e di nati fuori dal matrimonio, la peculiarità di quello che potremmo shakespearianamente definire «l’inverno (demografico) dello scontento», è che nell’ultimo decennio anche gli stranieri hanno diminuito la propensione ad avere figli, rispetto ai dati vertiginosi del 2012, e questo per una sorta di osmosi culturale, o infezione, oppure più semplicemente per un’attenta analisi delle mille carenze che il nostro sistema riserva ai neo-genitori, in termini sia di sostegno che di servizi.
Che la povertà reale, e non solo l’assenza tangibile di un futuro, possa contribuire al decremento demografico è un dato di fatto e lo dimostra il primato di fecondità raggiunto al Nord-est (1,29), contro il minimo totalizzato dalla Sardegna (0,95).
Ma la denatalità è sintomo e indice di un problema più esteso, che non può esaurirsi nell’elenco (sempre politico) dei dati statistici, poiché epifenomeno di un paese diseguale e frazionato, e lo dimostra il fatto che mentre nel 2000 l’Italia contava ben 10 regioni fra le prime 50 d’Europa, e nessuna fra le peggiori 50, dopo vent’anni ne annoveriamo quattro fra le migliori (provincia di Bolzano, Lombardia, provincia di Trento e Valle d’Aosta) ma anche quattro fra le peggiori (Puglia, Calabria, Campania e Sicilia).
Il parametro di base resta il reddito medio pro-capite, ma è stato ampiamente dimostrato che un paese più coeso e con meno disparità regge meglio alle crisi, laddove una nazione fortemente frazionata resta indietro in termini di competitività.
Uno studio effettuato qualche anno fa dalla Fondazione Edison ha evidenziato come scommettendo sullo sviluppo industriale del Sud, integrandolo alle eccellenze già presenti, l’economia del Belpaese sbaraglierebbe quella di Germania e Francia, così la sperequazione fra Italia e resto d’Europa (il nostro salario medio annuo è fermo al 1990, mentre spagnoli e francesi lo hanno aumentato rispettivamente di undicimila e tredicimila dollari) diviene il riflesso di quella fra Sud e Centronord.
Se una parte non cresce ne risente tutto l’organismo ed è un assioma fisiologico che camminare con una sola gamba deteriori a lungo andare anche quella sana, nuocendo a muscolatura e nervi dell’intero corpo, così l’autonomia differenziata, la rimozione improvvisa del reddito di cittadinanza e le resistenze al salario minimo, rischiano di restringere produttività e consumi, allargando il baratro con un Meridione dove si muore prima, ci si cura male (quando ci si cura), si apprende poco e si emigra in massa.
Ad aggravare questo squilibrio, economico, sociale e demografico, è l’offerta formativa universitaria, visto che soprattutto negli ultimi anni la meglio gioventù meridionale si è trasferita negli Atenei del Centronord, meglio se privati perché si paga di più ma si entra con più facilità: per snocciolare qualche dato, nel 2019/2020 gli iscritti universitari non residenti erano 64165 mentre nel 2021/2022 sono diventati 79994, con percentuali che vanno dal 72,7% della Bocconi al 50% delle romane Luiss, Biomedico e Link Campus, passando attraverso il 66,5% di Trento e il 64,1% del San Raffaele.
Incrociare i dati determina la cifra sociale, così attualmente è il 28,5% degli studenti del Sud ad immatricolarsi al Centronord, fra di essi il 38,9% termina gli studi e il 49% trova lavoro entro cinque anni dalla laurea senza rientrare al Meridione e questo, al netto di una perdita media di due milioni di ragazzi fra i 18 e i 34 anni tra il 2002 e il 2022, sia al Nord che al Sud, determina un buco ventennale di 300 mila laureati al Sud (l’approssimazione è al ribasso e il fenomeno in crescita).
Si tratta di tre miliardi di euro trasferiti al Settentrione, se ogni laureato vale 150 mila euro di spesa pubblica, più i 2,47 miliardi di fondi privati, se si calcola una media d’investimento di 30 mila euro l’anno a studente (limitandosi solo a università e affitti); se a queste cifre si aggiungono anche le spese per vitto, libri, vestiario ed esigenze voluttuarie, il travaso finanziario è vertiginoso e si deve anche considerare che molti neo-laureati fuori sede aspettano di trovare lavoro per cambiare residenza e mettere su famiglia, una famiglia che potrebbe allargarsi ulteriormente col trasferimento definitivo dei nonni al Nord, dove le prestazioni sanitarie sono decisamente superiori.
Lo spettro di un Sud disabitato, retrocesso a meta turistica o preda delle mafie (che negli ultimi anni hanno però preferito investire al Nord) inizia a comporsi in maniera preoccupante e, al di là delle suggestioni letterarie e/o distopiche, quest’Italia a scartamento ridotto diverrebbe un problema da risolvere per l’Europa, più che una risorsa su cui investire.
«La Quistione Meridionale» era un saggio incompiuto che, dopo l’arresto avvenuto nel 1926, Antonio Gramsci ampliò e introdusse nel corpus dei suoi Quaderni dal Carcere: in questo testo il grande intellettuale sardo promuoveva lo scioglimento del blocco agrario fra grandi proprietari terrieri e masse rurali, più o meno coscientemente vigilato dagli intellettuali, a causa del loro cosmopolitismo e indifferenza alle problematiche locali, con il costituirsi di un blocco storico che prevedeva un’alleanza fra proletari del Nord e braccianti del Sud, proprio attraverso il partito politico, e una metamorfosi degli intellettuali stessi in grado di contribuire all’egemonia proletaria tramite un’opera di trasformazione delle classi subalterne da passive e inconsapevoli a soggetti politici operativi.
Dal punto di vista gramsciano, quindi, la letteratura e l’arte contribuivano a costruire, attraverso «lo spirito creativo popolare» quel «nazionale-popolare» che, come vera e propria categoria epistemologica, non si limitava a intrattenere ma costruiva un’identità collettiva omogenea, un sistema di valori condivisi che poneva un freno al neoliberismo e alla riduzione della società a semplice meccanismo dove operano, più o meno incontrollati, i rapporti di produzione.
Investire negli Atenei del Sud (operazione non impossibile se si pensa ad eccellenze come Cosenza), e con le dovute distinzioni e aggiornamenti, sia semantici che culturali, ridare lustro gramscianamente agli intellettuali meridionali, contribuendo a un progresso sia strutturale che infrastrutturale, potrebbe appianare la crudele sperequazione del nostro Paese, ma si può tentare solo uscendo da dinamiche unicamente di mercato, in funzione di un progetto politico che superi particolarismi e individualismi, così come nei Quaderni dal Carcere si chiedeva di mettere da parte sindacalismi e corporativismi.
«Unità» è la parola-chiave, contro diseguaglianze e frammentazioni, e non è un caso che a fondare l’omonimo quotidiano sia stato proprio Antonio Gramsci.
FONTE: Il Mondo Scuola